martedì 24 marzo 2009

Wikileaks chiede fondi

Wikileaks arranca: non vacilla sotto gli affondi dei governi e delle aziende di cui ha ospitato i segreti, è affaticata dal traffico che si sta riversando sulle sue pagine. L'home page è una esplicita richiesta di aiuto.

"Wikileaks è attualmente sovraccarica di utenti - spiegano dal sito che promette di pubblicare materiale incensurabile - questo è un problema comune che può essere risolto solo mettendo in campo risorse aggiuntive". L'infrastruttura del servizio non regge il peso dei cittadini della rete che vi si riversano per conoscere quello che non potrebbe trapelare attraverso i canali ufficiali.

Il sito ha di recente dato spazio alla soffiata con cui si rendeva pubblica una presunta lista nera dei siti filtrati dalle autorità australiane. Pubblicazione che ha mobilitato il ministro delle comunicazioni locale Stephen Conroy: ha provveduto a smentire l'originalità della blacklist e a minacciare denunce che sarebbero potute sfociare in conseguenze legali particolarmente pesanti. Coloro che si celano dietro a Wikileaks non si sono lasciati intimidire: hanno spiegato che la Svezia, paese in cui sono localizzati i server, protegge le fonti anonime e prevede sanzioni penali per coloro che violino questo diritto alla riservatezza.
Proprio per gli attriti che si sono intrattenuti con le autorità australiane, sono in molti a speculare che l'improvvisa irraggiungibilità di Wikileaks sia in qualche modo connessa con la pubblicazione della blacklist. Il sito non fa alcun accenno alla questione: semplicemente, per consolidare la propria infrastruttura e per tornare a rendere pubblici documenti che potrebbero cambiare il corso della storia, chiede un contributo ai cittadini della rete. Possibilmente, in tagli che oscillano tra i 25 e i 250 dollari.

La festa del pirata

Per chi si troverà a Roma il 28 Marzo ci sarà la festa del pirata, dalle ore
10 al Teatro delle Arti, piazza Giovanni da Triora:


Nel ventennale del WWW gli hacker si riprendono la rete e invitano tutti
alla "Festa del Pirata". Il 28 marzo a Roma, in una località che si vuole
ancora segreta, si ritroveranno tutti coloro che hanno deciso di non
tollerare oltre la mania legislativa che negli ultimi anni ha colpito
Internet, con il probabile risultato di renderla meno libera e meno
inclusiva. La festa è però soprattutto una risposta all'ossessione
securitaria manifestata da ex attori, attrici, giornalisti e politicanti
nostrani per dire che "esiste un'alternativa alla società del codice civile e
del codice a barre" e che questa alternativa è una "GPL society", una società
basata sulla cooperazione e sulla condivisione, strategie per sviluppare il
potenziale umano e fare il mondo migliore di come le generazioni precedenti
l'hanno lasciato: ingiusto, inquinato, pieno di guerre.

Organizzata come un flash mob con le indicazioni per arrivare che saranno
diramate su forum e via SMS poco prima dell'evento, il ritrovo sarà occasione
di discussione e approfondimento sulle tematiche della libera comunicazione,
del diritto alla privacy, della critica del copyright, ma diversamente da
incontri accademici e paludati, facendo uno sforzo eccezionale per rendere
comprensibili anche ai non addetti ai lavori argomenti complessi. E
innalzando insieme la bandiera della ribellione.

"Se presto il software ad un amico sono un pirata, se scambio un film sono un
pirata, se prima di comprare musica me la scarico e me la ascolto... sono un
pirata, beh... allora sono un Pirata!": così ci dice uno degli organizzatori
che non vuole dare neppure il suo nickname. E ancora "Siamo quelli che di
giorno gestiscono i backbone delle Telco, lavoriamo al chiodo per garantire
la sicurezza della tua azienda, ma di notte produciamo software libero e
contenuti liberi da copyright. Lo volete capire o no?". Schizofrenia? Forse.
Ma quello che i pirati vogliono dire forte al mondo è che il secolo del disco
è finito (lo dice anche Ernesto Assante nel suo ultimo libro: "Copio dunque
sono"), che sono stufi di veder lucrare le major sulle loro intuizioni, sulla
cultura collettiva, chiudendola con un marchio e spremendo come limoni gli
artisti. "La cultura è di tutti - denunciano - I vostri profitti sono il
nostro lavoro: è ora di condividerli!"
Questo è il popolo dei "pirati". Persone che non credono più al mito
dell'artista affamato che sarebbe danneggiato dal download illegale di
musica - 140 artisti inglesi si sono appena dichiarati a favore del libero
download musicale - che hanno dimostrato che il peer to peer può essere
applicato al mondo dei commerci online, e che smette di comprare film perché
è più divertente farseli da soli. Dice L@@p a Punto Informatico: "E poi la
rete è piena di cose autoprodotte che è assolutamente lecito scaricare e
condividere. Non è solo software libero, ma musica libera, film liberi e
libri no-copyright. Perché non dovremmo?".

Perciò alla festa, fra le attività previste ci sarà un corso pratico di P2P
per l'aspirante pirata, per gente che vorrebbe scaricare ma è intimidita
dalla tecnologia. Una sorta di laboratorio in cui saranno presentati i
software client P2P più diffusi, indicate le destinazioni dove si trovano
materiali da scaricare, illustrati i pericoli da evitare, spiegato come
godere del "bottino" accumulato. Alla festa si parlerà dell'esperienza di The
Pirate Bay e di Piratbyran, e sarà proiettato Steal this film, documentario
sulla retata della polizia svedese contro The Pirate Bay nel 2006,
autoprodotto dalla "League of Noble Peers" e distribuito come torrent. Una
storia ben raccontata nel libro La Baia dei Pirati, assalto al copyright, di
Luca Neri (Cooper editore). Sembra scontata la partecipazione di
ScambioEtico, l'unica realtà italiana che gestisce apertamente un tracker
torrent come atto di disobbedienza civile. Uno sparuto gruppetto il cui sito
genera un traffico da far invidia a una media holding e aggrega una comunità
molto vivace di giovani appassionati di BitTorrent.

Nell'incontro saranno passate ai raggi X le proposte di legge che vorrebbero
imbavagliare Internet e probabilmente ci sarà anche una testimonianza del
blogger siciliano Carlo Ruta condannato per stampa clandestina.

Per finire, un corso di autodifesa per il cibernauta, teso a spiegare gli
strumenti che aiutano ad aggirare la censura e a difendere l'anonimato delle
comunicazioni in rete (da Open DNS ai servizi proxy, da TOR a Anonet, dal PGP
ai sistemi di darknet). "Perché - racconta a Punto Informatico Capitan Luke -
anche gli italiani potrebbero essere presto costretti a utilizzare gli stessi
tool creati dagli hacktivisti per aiutare i dissidenti che vivono nei paesi
totalitari". "Uno di questi è TrueCrypt - ricorda - per blindare l'hard drive
esterno dagli occhi indiscreti degli sbirri del copyright che domani ti
entreranno tranquillamente in casa".

Surreale? Provocatorio? Vista l'incapacità dei media italiani di affrontare
con competenza le questioni della rivoluzione digitale forse è una scossa
utile, anche per il mondo della politica. A questo proposito gli animatori
dell'evento stanno organizzando "L'uncino d'oro", un premio da conferire al
Ministro degli interni Bobo Maroni, per essersi pubblicamente autodenunciato
come downloader incallito, nel 2006, in un'intervista a Vanity Fair, in
quanto "favorevole alla libera scaricabilità della musica".

Attenti all'Ipod shuffle!

Notizia curiosa: il nuovo Ipod shuffle non accetta che cuffie originali della Apple, ma solo quelle di ultima generazione o cuffiette certificate da Apple attraverso l'inserimento di un particolare chip. Chiunque comprasse cuffie "compatibili" con l'ultimo lettore della Apple (o "vecchie" cuffie Apple) potrebbe ritrovarsi una sgradita sorpresa (notizia confermata da Apple stessa perchè vogliono "garantire la qualità"):

Nonostante i vari prodotti destinati al settore personal audio (comprendente anche quell'iPhone che altro non è che un iPod Touch che telefona e manda SMS) siano stati osannati da critica e appassionati in termini di funzionalità e user experience, lo stesso non può essere detto degli auricolari di serie forniti dall'azienda di Cupertino, che in molti invitano a sostituire con dispositivi più performanti. Una questione da audiofili, ma che sembra divenire una sorta di giallo dopo il recente lancio della nuova versione di iPod Shuffle, il primo player musicale della casa dotato di comandi in linea integrati sugli auricolari: le prime recensioni del prodotto hanno dimostrato come i precedenti set di auricolari con comandi non funzionino sul nuovo arrivato della famiglia. Ciò sembrerebbe essere dovuto alla presenza di un misterioso chip integrato nel corpo del telecomando integrato nelle cuffie il cui compito sarebbe secondo qualcuno quello di ammettere alla festa solo l'hardware certificato, dietro pagamento di licenza, da Apple.

Tra i primi ad accorgersi che qualcosa non andava è stato lo staff di BoingBoing che, testando un paio di cuffiette dotate di comandi in linea, ha notato come non vi sia apparente compatibilità tra i vecchi dispositivi certificati per iPod e il nuovo player giunto alla terza generazione. Sulle prime si era pensato che il malfunzionamento fosse dovuto alla nuova interfaccia introdotta da Apple, gestita da un unico tasto per le funzioni di play/pause e skip, nonché per la selezione delle differenti playlist. Analizzando con più precisione il corpo dei comandi al suo interno, è saltata subito agli occhi la presenza di un minuscolo chip, la cui dicitura riporta il codice 8A83E3, posizionato sotto i tasti.

In attesa di notizie ufficiali da parte di Cupertino, la scoperta del minuscolo chip genera una serie di ipotesi: la più accreditata in rete sembrerebbe essere al momentoquella che vede Apple intenzionata a veicolare al meglio il lavoro di altri produttori costringendoli a costruire cuffiette compatibili solo dopo aver pagato le necessarie licenze alle casse di Cupertino. Del resto, il dispositivo funziona solo ed esclusivamente con le cuffiette di serie o meglio, non avendo i tasti può essere manovrato solo con le cuffie di serie. "Questo è, in breve, uno scenario da incubo per gli appassionati di lungo corso di iPod" dichiara Jeremy Horwitz di iLounge, tra i primi a segnalare l'intera vicenda. "Stiamo forse entrando in un mondo in cui Apple controlla e tassa ogni singolo prodotto che ruota intorno ad iPod, alzando ulteriormente i prezzi e forzando i consumatori a comprare nuovamente hardware già in loro possesso a fronte di marginali cambiamenti nella loro funzionalità?", si interroga.
Al contrario, da quanto si evince dalla pagina relativa al prodotto sul sito di Apple, i controlli delle nuove cuffiette funzionano anche con le ultime versioni di iPod Nano, iPod Classic e iPod Touch. Per le versioni precedenti, il dispositivo si comporta come un normale paio di cuffiette e i comandi in linea sono del tutto inutili. Ciò induce a pensare che il progetto era nell'aria da ben prima che l'intera linea di lettori multimediali fosse rinnovata ed aggiornata. Inoltre, secondo iLounge, utilizzando cuffiette diverse da quelle made in Cupertino si udirebbe anche un fastidioso ronzio emesso dal lettore "alla ricerca del chip mancante".

Il vero nocciolo della questione, comunque, sembrerebbe ruotare intorno Chiunque voglia costruire un dispositivo totalmente compatibile dovrà sottostare alle politiche della Mela pagando il dovuto (sembrerebbe $1, ma dopo verifica di Apple), poiché in caso contrario Apple potrebbe rivendicare i propri diritti sotto le normative del DMCA in caso di reverse engineering non autorizzato.
Tutti i dispositivi compatibili arriveranno sul mercato con un prezzo non inferiore ai 40 euro, mentre gli adattatori si aggireranno intorno ai 20/30 euro: considerato che il dispositivo viene venduto a 75 euro, la somma totale per poter usufruire di altre cuffie sarebbe di 115 euro, un costo che a molti potrà sembrare esagerato dal momento che con ulteriori 24 euro è possibile acquistare un iPod Nano che ha il doppio della capacità, permette di guardare i video e di ascoltare musica con qualsiasi dispositivo.

ACTA: il mistero si infittisce

ACTA coinvolge la sicurezza nazionale, il trattato anticontraffazione che si sta negoziando fra i paesi di mezzo mondo non verrà mostrato al pubblico, non in questo momento. Così ha decretato l'amministrazione Obama.

I rappresentanti di Unione Europea, Stati Uniti, Australia, Canada, Giappone, Corea, Messico, Marocco, Nuova Zelanda, Singapore e Svizzera convergono periodicamente in incontri blindati: il patto anticontraffazione striscia negli uffici dei colossi dell'industria dei contenuti, prende consistenza nei Palazzi, si manifesta di quando in quando in estratti trapelati da fonti anonime e rilanciati online. Ma le istituzioni non si mostrano disposte a coinvolgere i cittadini nel dibattito, né a mostrare in maniera trasparente quanto fermenta intorno a ACTA.

Il patto, ancora immerso nel mistero, è al centro dell'interesse di numerose associazioni di cittadini della rete: al di qua e al di là dell'Atlantico sono innumerevoli le organizzazioni che hanno fatto appello alle autorità per conoscerne i dettagli, per fugare dubbi o per mobilitarsi: i frammenti emersi finora sembrano suggerire che ACTA contenga disposizioni che possano irrigidire la tutela della proprietà intellettuale online e alle frontiere con filtri e perquisizioni, strumenti che possano caricare gli intermediari della rete di responsabilità nel combattere i traffici illegali di contenuti. L'ultima di queste richieste era stata inoltrata da Knowledge Ecology International alla fine del mese di gennaio: l'organizzazione si era rivolta all'Office of the United States Trade Representative della Casa Bianca per chiedere chiarimenti e la pubblicazione di una manciata di documenti.
Così come avvenuto nel quadro europeo, in risposta alla richiesta di trasparenza di Foundation for a Free Information Infrastructure (FFII), l'amministrazione si è negata, ha negato ai cittadini della rete la possibilità di conoscere ACTA. Se l'Europa aveva rifiutato la trasparenza spiegando che la pubblicazione dei documenti avrebbe potuto influire sul dipanarsi del dibattito fra le parti interessate, le motivazioni addotte dallo US Trade Representative, in linea con il responso fornito in relazione alla richiesta inoltrata da EFF, attengono alla sicurezza nazionale. Si tratterebbe di informazioni classificate, classificate per tutelare i cittadini da minacce non meglio precisate. Nessun altro dettaglio: se c'è chi ha osservato che negli States la decisione di etichettare un documento come segreto implica necessariamente che l'autorità che gli ha attribuito un tale status elenchi le motivazioni e le minacce che una diffusione del documento potrebbe porre nei confronti dei cittadini, KEI sottolinea come il documento sia segreto ai soli occhi del cittadino.

Sono innumerevoli gli anelli della catena dell'industria della proprietà intellettuale che stanno partecipando ai processi di negoziazione e che hanno a disposizione una base su cui edificare il prossimo futuro della tutela della proprietà intellettuale. Ci sono rappresentanti della farmaceutica come Eli Lilly e di attori delle biotecnologie, ci cono rappresentanti di coloro che producono e gestiscono contenuti come RIAA e Time Warner, ci sono colossi della tecnologia come Cisco e IBM. Avanzano proposte e dialogano con le istituzioni e c'è chi paventa che sullo scacchiere internazionale il quadro si vada configurando in proposte di regolamentazione che i governi stanno progressivamente valutando e introiettando. Attribuendo ad esempio agli intermediari della rete la responsabilità di agire concretamente nella tutela della proprietà intellettuale.

Ma se gli States hanno più volte negato ai cittadini la possibilità di sapere di più su ACTA e si sono limitati a contenere le perplessità delle parti non coinvolte, le istituzioni europee potrebbero far seguire i documenti veri e propri alle rassicurazioni già diramate nei mesi scorsi. Il Parlamento Europeo ha approvato un emendamento ad una proposta di regolamento in materia di accesso dei documenti da parte dei cittadini, e potrebbe costringere la Commissione alla trasparenza. Il Canada promette nel contempo di voler rilasciare i documenti relativi ad ACTA quanto prima, o perlomeno di intervenire per dissolvere la percezione dell'alone di segretezza che avvolge le negoziazioni con cui si sta costruendo ACTA.

Speranze per riprendere la vista

Ron, un uomo inglese di 73 anni completamente cieco da 30, ha ricominciato a vedere sette mesi fa, quando all'ospedale londinese Moorfields Eye gli hanno impiantato un sofisticato dispositivo di visione noto come Argus II. In questi mesi Ron ha "visto la luce", letteralmente, dopo tre decadi di buio, e l'equipe medica che lo ha operato si aspetta di vedere risultati sempre migliori in futuro grazie al progressivo adattamento del cervello al cyber-occhio.

Al Moorfields Eye hanno già sperimentato Argus II, prodotto dall'azienda statunitense Second Sight, su tre pazienti incluso Ron. In tutti i casi l'occhio bionico consiste nell'installazione, sulla base dell'occhio a diretto contatto con la retina, di un chip dotato di elettrodi sensibili ai segnali luminosi, che passano da una minuscola videocamera montata su un paio di occhiali scorrendo attraverso un cavo di comunicazione installato nel bulbo.

Il risultato pratico è che il microchip fa da sostituto alla retina malfunzionante, cercando di sopperire al senso naturale della vista pesantemente danneggiato da una malattia degenerativa dagli effetti devastanti nota come retinite pigmentosa. "Per 30 anni - dice Ron alla BBC - non ho visto assolutamente nulla, è stato tutto scuro, ma ora la luce è tornata a passare. Essere all'improvviso capaci di vedere ancora la luce è veramente meraviglioso".
Dopo decenni di buio, ora Ron è in grado di seguire le strisce bianche per strada, sistemare i calzini bianchi separando i bianchi da quelli grigi e neri, fare la lavatrice, e spera, un giorno, di poter uscire una sera e vedere la luna all'orizzonte. Lyndon da Cruz, il chirurgo che ha operato Ron, si dice "molto incoraggiato dai progressi della sperimentazione", l'impianto ha funzionato stabilmente per sei mesi e il paziente ha sperimentato "percezioni visive consistenti generate dal dispositivo".

Argus II rimane una tecnologia "stimolante per la possibilità di fare un passo avanti molto reale e tangibile nel trattamento dei pazienti con una perdita totale della vista", dice il chirurgo, avvisando che ci vorranno ancora due anni prima della fine delle sperimentazioni e che il successo effettivo dell'occhio bionico di Second Sight va ancora testato a fondo.

La stessa società produttrice, per bocca di Gregoire Cosendai, si dice d'altronde fiduciosa sulle qualità di Argus II, che in teoria dovrebbe fornire alle persone "un livello di visione ragionevolmente buono". Un risultato, questo, che non è ancora stato raggiunto in pieno, ma che rimane nelle possibilità della tecnologia e dei suoi eventuali sviluppi.

venerdì 20 marzo 2009

Controllare internet

È stata una settimana delirante. Non era evidentemente bastato l'articolo del decreto sicurezza approvato dal Senato della Repubblica attraverso il quale le autorità italiane, preoccupate di perseguire l'apologia di reato ed altri reati di opinione, potranno con paciosa semplicità decidere di chiudere all'utilizzo dei cittadini italiani intere piattaforme sociali come Facebook. Un articolo di legge capace di generare commenti e malcelate ironie da parte della stampa di tutto il mondo non era evidentemente sufficiente a placare l'ansia formidabile di controllo che questo governo, e l'intero Parlamento del paese, mostrano di avere nei confronti della rete Internet. Così, nei giorni scorsi, si sono aggiunti un curioso disegno di legge dell'Onorevole Carlucci sulla regolamentazione di Internet ed una ammissione di paternità dell'Onorevole Barbareschi sulla bozza di normativa antipirateria circolata in rete nelle ultime settimane e inizialmente attribuita alla SIAE.

Mi mancano forze e volontà per raccontare ancora una volta, punto per punto, come mai questi tentativi regolatori siano palesemente sbagliati, sono certo che altri lo faranno meglio di me. Non mancano del resto su questo giornale e un po' dappertutto in rete le analisi puntuali in questo senso, unite ad un sincero e diffuso "inorridimento". Mi sembra però di poter individuare due punti di contatto evidenti che avvicinano fra loro queste ipotesi normative.

Il primo aspetto è che simili tentativi sono accomunati da una straordinaria e patente ignoranza delle materie in esame. Nella stragrande maggioranza dei casi non esiste probabilmente alcun lavoro preparatorio alle proposte avanzate, non si intravede la consultazione pur minima di alcun esperto della materia, ne l'adesione ad una qualche linea di pensiero fra le tante possibili fra quelle esistenti in campo tecnologico. La grossolanità di simili prese di posizione è da un lato la ragione che facilita l'ironia greve dei commentatori internazionali, dall'altro non fa altro che riaffermare quale sia l'arroganza e l'impreparazione dei nostri legislatori.
Lo stesso senatore D'Alia, incalzato da una gentile intervista telefonica di Alessandro Gilioli dell'Espresso, ha chiarito come meglio non si sarebbe potuto la sua distanza dalla materia che lui stesso propone di normare. Quattro frasi fatte contro i mafiosi su Facebook purtroppo non sono sufficienti a far emergere dalle acque una norma sensata. E l'unico risultato possibile di una simile avventatezza è quello di sollevare l'ilarità altrui o di ricordare ai più catastrofisti le analogie imminenti con paesi come la Cina o la Birmania.

Il secondo aspetto per conto mio significativo, è che non esiste oggi una responsabilità limitata ai "faciloni" del governo di centro-destra. L'humus sul quale nascono simili proposte di legge accomuna parlamentari di entrambi gli schieramenti, senatori novantenni ed eletti di prima nomina (come Marianna Madia del PD, classe 1980 che sul suo blog si è abbondantemente spesa per la necessità di allontanare per legge tutti i cattivi dalla rete). Questo è forse l'aspetto più preoccupante di tutta la vicenda. Nel nostro Parlamento una cultura minima della rete non esiste. La grande maggioranza dei nostri eletti misconosce la centralità di Internet nelle dinamiche dello sviluppo tecnologico. La rete viene considerata una piccola variabile spegnibile, esattamente come un elettrodomestico di cui è possibile fare a meno senza eccessivi impicci. I segnali di questa noncuranza sono ormai quotidiani e incontrovertibili.

Qualche giorno fa la polizia postale, utilizzando una norma approvata ai tempi del mai compianto Ministro Gentiloni, ha celato alla navigazione dei cittadini italiani (e solo a loro) un intero server di Image Shack (un servizio di store fotografico online molto utilizzato in tutto il mondo). Le ragioni di una simile paterna preoccupazione è che "probabilmente" su tale server qualcuno aveva caricato una o più immagini a carattere pedopornografico (così almeno recita il disclaimer sulla pagina). In tempi normali (ed anche oggi probabilmente nei paesi normali) sarebbe bastata una mail al servizio abuse di ImageShack e la rimozione sarebbe stata istantanea come avviene di norma in odiosi casi del genere. Oggi invece in Italia è sufficiente aggiornare una lista di DNS presso gli ISP italiani e il gioco è, per modo di dire, fatto. L'immagine presunta pedopornografica viene celata (anche questo per modo di dire, visto che basta usare DNS differenti per superare il blocco) insieme a molte migliaia di altri contenuti perfettamente legali. La domanda che a nessuno sembra interessare è: quanto contano questi contenuti legali? Che dignità hanno nella mente di coloro i quali decidono arbitrariamente di oscurarli ad una intera nazione? Molto poco evidentemente, esattamente come Facebook per il senatore D'Alia.

C'è una necessità urgente di affermare una dignità minima della rete Internet, come punto nodale dello sviluppo non solo tecnologico del paese ma anche e soprattutto come luogo di una sua possibile rinascita culturale: tutto questo oggi, in Italia, nei palazzi della politica, semplicemente non è possibile. Predomina invece una idea della rete Internet come di un luogo insidioso e pericoloso, un decennio di pessima stampa al riguardo ha infine ottenuto i suoi risultati.

Non è, ovviamente, solo colpa dei media o di una classe politica del tutto inadeguata, le responsabilità sono ampie e condivise e interessano certamente anche i cittadini, incapaci di organizzare una minima risposta a questa folle ansia di controllo che da qualche tempo avvolge l'intero Paese. Ma non c'è oggi maniera migliore dell'osservare cosa accade nella Internet italiana che vedersi scorrere davanti agli occhi il film al rallentatore di uno stato di diritto che si trasforma in uno stato di polizia.

Massimo Mantellini

Google vi segue sempre!

Volete sapere dove si trova una persona ogni volta che volete, se avete il suo cellulare Google ve lo dice:

La moglie che vuole tenere d'occhio il marito, il fidanzato geloso che vuole conoscere gli spostamenti della sua promessa sposa, il genitore apprensivo che non perde occasione per tenere sotto controllo i figli. Oppure due semplici amici che vogliono tenersi in contatto anche se vivono in due posti diversi: la nuova funzione di Google Maps si chiama Latitude, e consente tutto questo. Certo, a qualcuno potrebbe far paura l'idea che tutti sappiano sempre tutto di dove si è e di cosa si fa: ma si può sempre spegnere il telefono se non si vogliono correre rischi.

Per funzionare, Latitude sfrutta le antenne GPS sempre più spesso presenti sui cellulari - non necessariamente smartphone - messi in commercio soprattutto negli ultimi mesi. Raccolta l'informazione la trasmette a Google, che piazza un bel segnaposto su una mappa: a questo punto si può decidere se tenere questa informazione per sé, o se si preferisce condividerla con qualcuno. Si manda un invito ad un amico o una amica, si attende la conferma, e si inizia a chiacchierare.

Uno dei punti di forza di Latitude, infatti, è l'integrazione con GTalk: cliccando sul segnaposto di un amico si può avviare con lui una conversazione, oppure si può mandargli un SMS o un'email. O chiamarlo, visto che in teoria si sta usando un cellulare. Per tutto questo c'è bisogno di un cellulare moderno, come detto, e per il momento la versione 3.0 di Google Maps Mobile (quella che incorpora Latitude) è disponibile per Android, Symbian S60, Blackberry e Windows Mobile. In arrivo le versioni pure per iPhone, iPod Touch e terminali Java: se poi il cellulare non avesse a bordo il GPS, la localizzazione avverrà con le stesse modalità di My Location, sfruttando i segnali radio conosciuti da Google per individuare un'area generica.

Chi non avesse un cellulare, infine, o non avesse la possibilità o la voglia di usare l'applicazione in mobilità (che richiede di accedere ad Internet per funzionare, quindi ha un costo legato al traffico dati), può sempre scaricare il gadget da installare nella propria homepage personalizzata iGoogle. In questo modo è possibile effettuare praticamente le stesse operazioni, o quasi, della versione per telefonino, ivi compreso dare un'occhiata a dove si trovano i propri amici e scambiarci quattro chiacchiere.

Come detto, l'idea di Latitude può piacere o spaventare: in ogni caso, questa volta BigG ha voluto adottare un approccio molto conservativo per quanto attiene la privacy, visto che ogni funzione di questa nuova caratteristica è "opt-in". L'autorizzazione per mostrare ad un amico la propria posizione, ottenere la sua, generare automaticamente la propria localizzazione o settarla manualmente, è sempre richiesta: si possono variare le impostazioni generali per tutti (impedendo a chiunque di sapere che ci si trova al ristorante con l'amante), oppure modificare volta per volta cosa mostrare ad ogni singolo utente.



Tra l'altro, da Mountain View fanno sapere che sui loro server non rimane alcuna traccia degli spostamenti - se non per quanto attiene all'ultima posizione conosciuta, indispensabile per far funzionare il programma. Latitude, in ogni caso, è solo l'ennesimo investimento fatto da BigG nel settore delle mappe: solo un paio di giorni fa aveva rilasciato la nuova versione di Google Earth, segno che questo tipo di informazioni interessa non poco l'azienda di Mountain View. A quando le pubblicità personalizzate in base a dove ci si trova?

Università per tutti, on-line

Manca un mese all'università delle persone, scopriamo cosa sia:

Un'università internazionale, completamente online ed aperta a tutti con costi di iscrizione risibili. È questa la promessa della "University of the People", l'ambizioso progetto educativo lanciato dall'imprenditore israeliano Shai Reshef: che risponde, con ottimismo, alle (molte) critiche degli addetti ai lavori.

Reshef, un passato da designer di e-learning ed un presente nella board della community educativa Cramster, parte da un assunto molto semplice. "Il materiale per i corsi è già tutto là, reso disponibile dagli Atenei che hanno messo online gratuitamente i propri corsi - spiega al reporter del New York Times - E poi sappiamo che l'insegnamento peer-to-peer in linea funziona. Mettendo insieme questi elementi, si apre lo spazio per una università gratuita aperta agli studenti di tutto il mondo. Aperta a chiunque parli inglese ed abbia una connessione internet a disposizione".

La University of the People dovrebbe aprire i battenti nell'Aprile del 2009, con una fase beta che prevede un numero ridotto di studenti (300) e pochi corsi a catalogo. Ma d'altra parte Reshef si dice fiducioso di poter raggiungere in meno di cinque anni la soglia di 10000 iscritti dove, spiega, il business diventerebbe profittevole. L'investimento iniziale previsto è di 5 milioni di dollari.
Nelle "classi" virtuali del nuovo ateneo, ciascuna composta da non più di 20 studenti, verrebbero forniti i vari insegnamenti associati al corso di laurea. Per ogni insegnamento sono previsti un forum online- dove scaricare i materiali didattici, vedere le domande dei colleghi, discutere i temi non chiari e vivere momenti di interazione online con gli altri studenti.

La supervisione rispetto alle attività degli alunni, spiega ArsTechnica, dovrebbe essere garantita da team misti formati da volontari (non pagati) e docenti veri e propri. A questi ultimi il compito di monitorare l'andamento complessivo delle lezioni, il comportamento dei volontari, nonché risolvere eventuali dubbi lasciati irrisolti nei forum. "L'idea - spiega ancora Reshef - è quella di prendere il concetto di social networking ed applicarlo al mondo dell'università".

Altro punto forte della University of the People dovrebbe essere l'economicità. L'iscrizione al singolo corso dovrebbe infatti costare una cifra variabile tra i 15 ed i 50 dollari, mentre la partecipazione agli esami - unica voce di costo ulteriore per gli studenti - dovrebbe oscillare tra i 10 ed i 100 dollari. Le tariffe per i ragazzi dei paesi in via di sviluppo sarebbero di default quelle più basse, mentre prezzi più alti verrebbero praticati per tutti gli altri.

A dispetto dell'entusiasmo profuso da Reshef e dai suoi collaboratori, però, molti addetti ai lavori restano scettici rispetto all'iniziativa. "Negli ultimi dieci anni si è parlato spesso di avviare iniziative simili, ma i tempi non sembravano maturi - spiega il direttore dello Sloan Consortium, John Bourne - Dal punto di vista dei contenuti c'è molto (e molto di buono) in giro. Ma la vera incognita sono gli insegnanti. Mi piacerebbe capire quale sia la ricetta che consente di trovare, e formare, un insegnante di qualità senza imporre agli studenti adeguate tasse universitarie".

Ci sarebbe poi da badare alle problematiche tecnologiche collegate al progetto. I file audio-video delle lezioni, infatti, richiedono connessioni broadband che una larga parte del pubblico potenziale di Reshef non sembra possedere. Il rischio è che nei paesi in via di sviluppo gli studenti abbiano accesso soltanto ai materiali testuali, mancando una parte fondamentale dell'esperienza didattica. Ma Reshef risponde con ottimismo a tutte le critiche mosse contro il suo nuovo progetto. "Collaborando online, gli studenti formano delle reti sociali molto forti. E attraverso queste reti online, peraltro molto amate dai ragazzi, siamo in grado di portare gli insegnamenti superiori in ogni parte del mondo. (...) Fino ad oggi, non sono ancora riuscito a trovare una sola persone per la quale questa non sia una buona idea".

Negli ultimi anni, la formazione a distanza ha conosciuto una vera e propria esplosione. Una ricerca dello Sloan Consortium illustra come, nel 2007, almeno 3,5 milioni di studenti abbiano frequentato corsi online negli Stati Uniti, mentre progetti come OpenCourseWare del MIT vengono ripresi da paesi di ogni parte del mondo. In Italia lo scenario sembra evolvere con qualche lentezza in più, ma le grandi istituzioni si stanno comunque attrezzando.

Giovanni Arata